Lo Stato precario – Una nuova interpretazione del nazionalsocialismo
S. Reichardt/W. Siebel, Der prekäre Staat. Herrschen und Verwalten im Nationalsozialismus [Lo stato precario. Potere e amministrazione nel nazionalsocialismo], Frankfurt/New York, Campus Verlag, 2011, 300 pp., 29,90 €
A partire dalla fine degli anni Sessanta la storiografia sul nazionalsocialismo si è divisa in due correnti interpretative: da un lato i cosiddetti intenzionalisti assegnavano un ruolo decisivo all’ideologia e al Führer nelle scelte politiche del regime; dall’altro una corrente detta strutturalista o funzionalista affermava la natura caotica, disarticolata e policratica della macchina amministrativa del Terzo Reich e riconduceva le scelte politiche non tanto a Hitler, definito piuttosto un “dittatore debole”, quanto alla crescita esponenziale del caos all’interno del regime. Le due interpretazioni sono state a lungo discusse e diversi approcci storiografici hanno tentato di riconciliare il binomio tra policrazia e intenzionalismo. Un esempio per tutti è la proposta interpretativa lanciata dal R. M. Lepsius e ripresa da H. U. Wehler e I. Kershaw di utilizzare la tipologia di potere carismatico di M. Weber per comprendere la natura del nazionalsocialismo.
Il volume curato da Reichardt e Seibel affronta direttamente questa problematica raccogliendo i risultati di diverse ricerche che negli ultimi anni hanno riconsiderato la questione della policrazia nazionalsocialista. La tesi del libro è in polemica con l’idea secondo cui nello stato nazionalsocialista dominassero inefficienza e caos. Quest’idea, riproposta dalla storiografia fino a pochi anni or sono, era già diffusa tra le stesse élite dirigenti tedesche e nelle prime teorie elaborate da alcuni emigrati (E. Fraenkel e F. Neumann) negli anni del Terzo Reich. Secondo questa visione la proliferazione d’istituzioni e la disgregazione della macchina amministrativa generata dalla gestione nazionalsocialista dello stato furono fenomeni patologici che resero impossibile un funzionamento efficiente della macchina statale. Coloro che comunque ritenevano non essere solo il caos la legge di movimento del Reich assegnavano il ruolo di argine a questi effetti disgregatori al solo Hitler, che riportava unità e riconduceva agli obiettivi della politica nazionalsocialista la dispersione sistematica del processo decisionale.
Gli autori del libro contestano quest’idea sulla base di un diverso concetto di statualità. L’interpretazione tradizionale analizzava lo “stato di Hitler” (per citare il titolo del classico lavoro di M. Broszat) comparandolo al modello weberiano di stato moderno razional-burocratico, basato sulla spersonalizzazione delle funzioni amministrative. Le più recenti teorie dell’organizzazione sottolineano invece come l’efficienza sia garantita da elementi che non rientrano in questa classica tipologia. Il nazismo si è distinto proprio per essere riuscito a “ibridare” forme burocratiche e non-burocratiche d’amministrazione. Applicando alla lettura dello stato nazionalsocialista quest’immagine post-weberiana dell’organizzazione gli autori mettono in evidenza tre elementi strutturali del regime che servivano a garantire unità ed efficienza del sistema: personalizzazione, informalizzazione, e ideologizzazione delle “prestazioni di coordinazione”. Come in molta letteratura recente al centro di questa nuova interpretazione vi è il concetto di rete che garantisce unità ed efficienza e rende possibile contrastare la forte differenziazione della macchina amministrativa con un forte moto centripeto. Questa nuova visione, sottolineano gli autori, riesce a spiegare meglio della precedente l’enorme liberazione di energia, seppur volta a fini criminali, della società nazionalsocialista e la stupefacente tenuta delle strutture istituzionali fino al 1945. Il nazismo, in sintesi, è definito uno “stato precario”, ma di una precarietà estremamente “produttiva”.
Oltre all’introduzione di Reichardt e Seibel, che illustrano le premesse teoriche della nuova interpretazione, il libro contiene una serie di studi specifici che analizzano ambiti diversi della storia del Terzo Reich attraverso le lenti del concetto di “stato precario”. A lanciare la tesi ripresa nel libro è stato alcuni anni or sono lo storico R. Hachtmann che ha coniato a questo proposito l’espressione “nuova statualità”. Non a caso quindi il libro si apre con un lungo e articolato saggio di Hachtmann che riprende i suoi studi sul concetto di nuova statualità approfondendo le premesse teoriche di questo discorso. Per fondare teoricamente il suo concetto di nuova statualità Hachtmann si rifà alla teoria weberiana del potere carismatico. L’applicazione di questo concetto alla storia del Terzo Reich è stata legata finora al concetto di “caos cumulativo” che sarebbe derivato necessariamente dall’incapacità del potere carismatico nazista di routinizzarsi (ciò che Weber chiamava il problema della Veralltäglichung del potere carismatico). Hachtmann invece svincola il concetto di carisma dal presupposto che esso sia incompatibile con la gestione di un moderno stato territoriale. Fu proprio il carattere carismatico delle strutture amministrative a garantire funzionalità e adattabilità della macchina statale agli obiettivi del regime. Lo storico distingue nello stato nazista tre tipologie di struttura amministrativa carismatica (charismatischer Verwaltungsstab): l’organizzazione carismatica di massa (ad es. il Fronte del lavoro tedesco, le organizzazioni giovanili), i commissari speciali, i Gauleiter. Tutti e tre questi poteri ricevevano un’investitura direttamente da parte del Führer, dunque un’investitura carismatica. In queste strutture il potere non era impersonale ma rimaneva legato ai capi e al loro diretto rapporto con Hitler.
Una diversa interpretazione dello “stato precario” è data dal saggio di Armin Nolzen sulla Reichsorganisationsleiteung, un’istituzione centrale del partito nazionalsocialista (NSDAP) guidata da R. Ley. Nolzen, uno specialista della storia della NSDAP, ritiene che l’immagine tradizionale di inefficienza e eccessiva burocratizzazione del partito vada abbandonata. Il partito si trovò a rispondere a una rapida modificazione del suo “ambiente” – Nolzen usa principalmente concetti desunti dalle teorie del sociologo N. Luhmann – determinato soprattutto dall’enorme crescita degli iscritti e dall’assegnazione di sempre nuovi compiti di natura amministrativa.La NSDAP si adattò tramite una forte differenziazione e una crescita del suo apparato che rendeva possibile rispondere ai nuovi compiti. I conflitti di competenza tra le maggiori figure del partito R. Hess, R. Ley e A. Rosenberg – descritti ampiamente dalla storiografia come puro spreco, caos paralizzante – sono reinterpretati da Nolzen come fenomeni di “istituzionalizzazione” – un altro concetto luhmaniano – ovvero definizione di aspettative di comportamento reciproche che servivano a definire dei ruoli nell’organizzazione. Dunque anche tali conflitti erano in una certa misura costruttivi.
Un saggio di M. Ruck evidenzia il ruolo dei poteri locali nel regime. Il potere delle autorità locali dello stato non fu spazzato via dal centralismo impostosi dopo il 1933. Queste, insieme ai Gauleiter, rimasero importanti istanze mediatrici tra istituzioni berlinesi e popolazione. Pur tendendo a personalizzarsi – frequentemente una stessa persona accumulava diverse cariche locali dello stato e del partito e sono noti casi di Gauleiter che costruirono piccoli regni personali – le istanze di mediazione non misero mai in discussione il funzionamento del sistema. Ruck analizza le diverse fasi della storia del regime ed evidenzia come la collaborazione con le istituzioni berlinesi fosse in definitiva sempre virtuosa. Simile è l’interpretazione data da W. Gruner della funzione dei comuni nel nazionalsocialismo. Le élite comunali non furono semplici “ricettori di ordini” dall’alto quanto attivi promotori della politica del regime in numerosi campi di vitale importanza, soprattutto in guerra. C. Kuller analizza il ruolo dell’amministrazione finanziaria nella deportazione degli ebrei. Fino a pochi anni fa l’amministrazione finanziaria era ritenuta uno dei pochi ambiti del Terzo Reich in cui continuava a prevalere lo “stato normativo”, secondo la definizione di Fraenkel. Il saggio della Kuller invece mostra come questa istituzione abbia cooperato ampiamente allo sfruttamento delle ricchezze degli ebrei deportati stabilendo una positiva collaborazione con il Reichssicherheitshauptamt di Himmler. Il comportamento del Ministero delle finanze viene visto dall’autrice come un singolare miscuglio di stato discrezionale e stato normativo, volto nello stesso tempo alla spoliazione degli ebrei con mezzi non legali e alla fondazione del nuovo ordine legale della Volksgemeinschaft razziale.
Infine due saggi trattano dell’amministrazione dei territori occupati, il Belgio e l’Ostland, un commissariato del Reich che riuniva i territori baltici e la Bielorussia. Nell’amministrazionedei territori occupati la storiografia ha tradizionalmente individuato i più tipici esempi di caos amministrativo. Seibel invece analizza l’attività di Eggert Reeder, a capo dell’amministrazione del Deutsche Militärverwaltung in Belgien und Nordfrankreich (Amministrazione militare tedesca in Belgio e Francia del Nord), in quanto tipica figura di costruttore e gestore di reti (Netzwerker) e “manager amministrativo di stile addirittura post-moderno” (p. 77). La sua attività servì a garantire una collaborazione virtuosa tra amministrazione militare e SS. S. Jüngerkes invece sottolinea come i numerosi tentativi di riformare l’amministrazione dell’Ostland, sebbene non fossero mai concretamente realizzati, avessero un effetto stabilizzante sull’istituzione, garantendo il suo funzionamento fino alla fine.
Il senso complessivo di questa nuova interpretazione, destinata nei prossimi anni a essere applicata a nuove ricerche e discussa, è una revisione dell’immagine del Terzo Reich come sistema votato per sua natura al crollo. Come scrive M. Ruck: «La compagine di potere dinamico-precaria del “Terzo Reich” non fallì per contraddizioni strutturali di tipo funzionale o territoriale, quanto per le ossessioni ideologiche e le errate valutazioni politico-militari di un regime totalitario, la cui dirigenza poté esser certa fino alla fine dell’”adempimento del dovere” professionale di volenterose élite di funzionari e della – più o meno – “restia lealtà” della popolazione tedesca» (p. 105).
Paolo Fonzi