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“Quando passa il passato?”

16 settembre 2012 No Comment

Bernd Ulrich, “Wann vergeht Vergangenheit?”,  „Die Zeit“ n°36 del 30 / 8/ 2012

Versione online su „Zeit-online“ con il titolo “Wer sind wir, heute?“, <http://www.zeit.de/2012/36/Deutschland-Vergangenheit-Erinnerung-Schuld/komplettansicht>

 

 

Recensione di: Pasquale De Caprio, Università degli Studi di Napoli Federico II / Humboldt Universität Berlin – decaprip@hu-berlin.de

 

Wann vergeht Vergangenheit?” (Quando tramonta il passato?) è questa la frase che, sovrapponendosi al volto di Adolf Hitler, spicca sulla prima pagina dell’edizione del 30 agosto del popolare settimanale “Die Zeit”. Il titolo e l’immagine scelte a rappresentare l’articolo scritto da Bernd Ulrich, giornalista e vice caporedattore de Die Zeit, rendono immediatamente chiaro quale sia l’oggetto della sua inchiesta che si divide tra memoria storica ed attuale situazione politica: l’identità dei tedeschi ed il loro rapporto con il passato nazionalsocialista. Un passato che continua a farsi sentire e che, in un momento di crisi economica, viene manipolato ed adoperato da una certa parte della stampa europea “anti-tedesca” per costruire, seppur con cliché e luoghi comuni, un’immagine negativa della Merkel, del governo tedesco, dei tedeschi e della Germania. Tuttavia anche per i tedeschi il rapporto con il proprio passato, nello specifico, con il nazionalsocialismo e con l’Olocausto è cambiato. La Germania di oggi si muove a grande velocità ed i cambiamenti che sembrano riguardare esclusivamente l’ambito sociale, come la forte immigrazione e la massiccia presenza  di mussulmani, in realtà comportano delle notevoli variazioni anche nell’ambito della memoria collettiva e del rapporto tra i tedeschi e la loro storia. In ultima analisi, Ulrich esamina l’ importanza di questi cambiamenti all’interno della Germania.

L’articolo, diviso in tredici punti, affronta il tema identitario tedesco da tre diverse prospettive. Alcuni di questi punti, frutti di una riflessione personale, si concludono con una domanda a cui verosimilmente l’autore non sa o non vuole dare una risposta netta, mentre gli altri sono resoconti di interviste o di esperienze di vita. Tutto il testo prende comunque spunto da tematiche della stretta contemporaneità ed analizza avvenimenti assai recenti, come i campionati europei di calcio e le olimpiadi, che però richiamano alla memoria, non solo quella collettiva, il passato nazionalsocialista. In ogni caso, “Wer sind wir heute?” (Chi siamo noi oggi?) rimane la domanda di base che muove tutta la riflessione. Una domanda che, a dirla tutta, è giusta, lecita e legittima non solamente per i tedeschi.

 

Nei primi tre punti, 1. “Soso, das Vierte Reich”(E così, il quarto Reich), 2. “Ein Trainingslager ist kein Lager” (Un campo di allenamento non è un campo di concentramento) e 3. “Über alles in der Welt“ (Sopra ogni cosa nel mondo), Bernd Ulrich volge il suo sguardo ai tedeschi di oggi ed a come la nuova generazione si confronti con il proprio passato. Un confrontarsi che, se a volte ricade nella più banale apologia, sembra essere in alcuni casi semplicemente meno “dogmatico” di quanto avveniva nei decenni passati. D’altronde in Germania le generazioni si succedono ed il legame familiare, e quindi diretto, con il periodo hitleriano si fa sempre più sottile.

Vengono dunque inizialmente richiamati alla memoria due avvenimenti pubblici legati al mondo dello sport: il caso della vogatrice tedesca Nadja Drygalla[1] che, accusata di essere fidanzata con uno dei leader del movimento neonazista tedesco, venne “rispedita” a casa, e l’infelice domanda rivolta durante gli ultimi europei di calcio da un giornalista olandese a Joachim Löw al quale fu chiesto se non avesse avvertito il timore che i polacchi, potessero considerare provocatorio il fatto che la nazionale tedesca avesse scelto Danzica[2] come propria residenza. Il terzo punto fa invece riferimento ad una discussione che l’autore ha avuto con il figlio circa la prima strofa dell’inno nazionale tedesco “Deutschland über alles”. L’inno, che “suona” in qualche modo ancora scomodo per una generazione nata e cresciuta negli anni ’60, può essere invece considerato neutro dall’ultima generazione di tedeschi che si limita a contestualizzarne il testo e a storicizzare l’uso che di tale inno si fece. Se l’inno nazionale va condannato solamente perché fu adoperato dai nazisti, così come sostiene il padre, allora anche la parola “Autobahn” (autostrada) dovrebbe essere altrettanto condannata, ribatte il figlio di Ulrich, perché il regime ha costruito autostrade e adoperato tale termine di cui ancora oggi si fa normalmente uso in Germania.

In questa prima parte dell’articolo si intrecciano diverse tematiche che però sono certamente riconducibili al dialogo generazionale tedesco ed a come le ultime generazioni, per forza di cose, si raffrontino con il nazionalsocialismo in maniera diversa rispetto al passato. Infatti, negli anni ’60 e ’70 i tedeschi da un lato si trovavano ancora a stretto contatto con quanto avvenuto negli anni ’40 – sia per rapporti temporali che per rapporti familiari – ma dall’altro appresero anche come rapportarsi con questo passato. Ulrich adopera in maniera assai corretta il termine “Kollektivverantwortung” (responsabilità collettiva) che ci aiuta a capire lo sforzo di una presa di coscienza e di responsabilità al quale si sottoposero i tedeschi nella Repubblica federale. D’altro lato, oggi le ultime generazioni si sentono, probabilmente, più distanti dall’Olocausto e questo anche perché, come sottolinea lo stesso autore, il ricordo e la memoria dell’Olocausto deve essere in qualche modo “sentito” e non  deve mai divenire una vuota funzione.

 

Nei punti successivi il tema della memoria e dell’Olocausto si “sposta” dai confini tedeschi ed entra in contatto con i due luoghi che ancora oggi sono carichi di simbologia e memoria: la città polacca di Auschwitz e lo stato di Israele. Al rapporto politico e culturale tra Germania e Israele sono dedicati i punti: 5. “Gefühle eines Botschafters” (Sentimenti di un ambasciatore), 6. “Hitler, Gauck und Jad Vaschem” (Hitler, Gauk e lo Yad Vashem), 7. “Schuld macht klug”(La colpa rende saggi) e 8. “Ist der Holocaust für alle da?” (L’Olocausto c’è per tutti?). Questi punti sono riflessioni legate a viaggi compiuti dall’autore in Israele e ad interviste o colloqui avuti con Andreas Michaelis, giovane ambasciatore tedesco a Tel Aviv, con Avner Schalev, direttore dello Yad Vashem, con lo scrittore Etgan Keret e con il giornalista Barak Ravid. Un viaggio in Israele rappresenta per ogni tedesco un difficile banco di prova durante il quale il tema della responsabilità e della colpa collettiva viene con insistenza richiamato alla memoria. Allo stesso modo, la visita allo Yad Vashem (il museo dell’olocausto) è per i politici tedeschi un momento nel quale il peso della memoria sembra farsi quasi insopportabile poiché proprio in tale luogo ogni gesto viene soppesato e giudicato dall’esterno. Tuttavia anche i rapporti tra israeliani e tedeschi sono cambiati negli ultimi decenni. E ciò che è valido per la Germania, ovvero il cambio generazionale, è valido anche per Israele. L’ultima generazione di israeliani, così come i tedeschi più giovani, non ha più un legale familiare diretto con la Shoah. La memoria, anche in  questo caso, si fa più opaca. Nondimeno, benché l’Olocausto ed il suo ricordo rimangano argomenti delicati, si cerca, tanto in Israele quanto in Germania, di evitare un uso strumentale della Shoah nel continuo tentativo di tener viva la memoria storica poiché, come detto, il ricordo e la memoria non devono in nessun caso divenire una mera funzione. La questione ha però anche un suo aspetto politico poiché certamente la nascita dello stato israeliano è stata spesso posta in diretta relazione con l’Olocausto, dando vita così ad un binomio: storia tedesca – storia israeliana. Ma, in un’epoca di globalizzazione la colpa e la responsabilità, o per meglio dire le colpe e le responsabilità dello sterminio degli ebrei, cominciano ad essere “ridistribuite”.

Si assiste dunque ad una “internazionalizzazione” dell’Olocausto e della sua memoria. I carnefici non furono solo i tedeschi ed il peso della memoria non deve ricadere esclusivamente su di essi. D’altronde, se è vero infatti che la Germania Federale ha cercato di fare i conti con il proprio passato e di pagarne le conseguenze, appare invece assai più complesso affrontare il tema della “memoria collettiva” e della Shoah nell’Europa dell’Est. Più precisamente, la recente ricerca storiografica[3] ha dimostrato che proprio nei paesi dell’Europa orientale (Polonia, Ucraina, Lituania e Bielorussia, per citarne alcuni), non vi è stata alcuna profonda riflessione storiografica con ricadute concrete nella società e, nei fatti, Ulrich non nasconde che anche nell’ex DDR[4] la questione dell’Olocausto non fu mai oggetto di una considerazione simile a quanto avveniva al di là del Muro. Tutto ciò sembra avere conseguenze fino ad oggi quando le due “Germanie” si sono riunite e devono fare i conti con “una” memoria storiografica.

 

Auschwitz, ancor più di Israele, rappresenta per i tedeschi quello che può essere definito come un “Erinnerungsort” (luogo della memoria) per eccellenza. I punti 4. “Da will ich hin” (Lì voglio andarci), 9. “Ein Städtchen in Polen” (Una cittadina in Polonia) e 10. “Juden zu Besuch in Auschwitz”(Ebrei in visita ad Auschwitz) analizzano, per l’appunto, il ruolo di Auschwitz nella memoria storica tedesca. Auschwitz, una cittadina dall’aspetto tra il normale e banale, ha però ben poco di ordinario per un qualsiasi turista ed ancor di meno per un tedesco. La presa di contatto diretta con le camere a gas, con gli strumenti di tortura, con i campi di concentramento e con quelli di sterminio, lascia poco spazio tanto all’immaginazione quanto alla speculazione poiché costringe i presenti alla riflessione interna più dura e più profonda[3] . Di fatto, ad Auschwitz, si è costretti a fare i conti con la ruvidità della storia. Non a caso, Ulrich, citando Adorno, “Nach Auschwitz ein Gedicht zu schreiben ist barbarisch”(È barbarico scrivere una poesia dopo Auschwitz) fa notare che Auschwitz possieda ancora qualcosa di eternamente inumano che sembra precludere qualsiasi prospettiva futura, soprattutto, a tedeschi ed ebrei.

Tuttavia non solo i tedeschi sono turisti ad Auschwitz. Ma, tra gli altri, anche ebrei e mussulmani. E mentre i primi sono costretti ad essere scortati da bodyguard, proprio a causa del forte antisemitismo che è ancora radicato in quelle zone, il rapporto tra i mussulmani, in particolare quelli tedeschi, e l’Olocausto è difficile da definire. Per l’appunto il punto 11 dell’articolo “Weinen

und Blabla – Muslime und der Holocaust” (Piangere e chiacchere – Mussulmani e l’Olocausto) cerca di fare il punto su questa complessa questione che, ancora una volta, presenta due possibili interpretazioni e letture. Da un parte molti mussulmani che vivono in Germania dichiarano di  sentirsi poco o nulla tedeschi e che, conseguentemente, non hanno nulla a che vedere né con l’Olocausto né con la memoria collettiva che sono invece così fortemente presenti nell’insegnamento scolastico tedesco. Per quanto brutale e semplice possa apparire questa posizione, gli immigrati che non sono legati in linea familiare alla Germania degli anni del regime sembrano non voler prendere su di loro alcuna responsabilità. D’altro lato però si segnalano nuove iniziative e tentativi di giovani mussulmani tedeschi, ad esempio nel quartiere Kreuzberg di Berlino, che cercano di dare più spazio alla questione dell’Olocausto e della memoria collettiva e che accettando di essere tedeschi, poiché nati in Germania, accettano anche la storia della Germania e la sua elaborazione del passato.

 

Gli ultimi due punti, 12 “So vergangen ist die Vergangenheit”(Così lontano è il passato) e 13 “Schüttel deinen Speck[5]” (Muovi il tuo culo) tirano le somme di quanto si è detto fino ad ora. Ulrich non fornisce, chiaramente, una risposta definitiva né alla domanda “quando passerà il nostro passato?”, tantomeno alla domanda “chi siamo noi oggi?”. Certamente, come si è detto, la Germania si è fortemente modificata rispetto agli anni ’60 e ’70 e le nuove generazioni di tedeschi oltre ad essere più distanti, temporalmente, dagli anni del regime nazionalsocialista si trovano anche calate in una Germania che si pone come “Sondermodell”[6] (lett. modello particolare) dell’Europa e

che dà ampie possibilità e spazi ai non tedeschi. Sembra essere dunque una Germania che avanza velocemente verso il continuo progresso ma che, seppur lentamente, si distanzia dalla sua storia più

nera. Probabilmente, così come è avvenuto per altri temi, anche l’Olocausto e la sua memoria stanno passando in una fase di internazionalizzazione o globalizzazione. Non tutti i tedeschi che vivono in Germania conservano un vecchio cimelio del nonno ornato di svastica e la Shoah non è più considerata come una questione che riguarda solamente tedeschi ed ebrei.

È tuttavia certo che ancora oggi e nel prossimo futuro l’identità dei tedeschi continuerà a formarsi su una profonda riflessione storica e storiografica che avrà delle ricadute, siano esse positive o negative, nella società tedesca. È altresì significativo che i tedeschi, indipendentemente dal ruolo giocato dalla Germania in Europa, continuino ad interrogarsi ed a chiedersi “Wer sind wir  heute?”. Una domanda ed una riflessione che sarebbe legittimo aspettarsi anche in altri paesi poiché i conti con il proprio passato, soprattutto quello più oscuro, non sono mai chiusi.

 

PDC



[1] L’atleta è stata immediatamente squalificata dalla squadra olimpionica tedesca. Il caso ha suscitato un certo clamore in

Germania ed il tema “neonazismo” è stato più volte affrontato in quei giorni dai media tedeschi.

[2] Danzica è la città polacca che il nazionalsocialismo rivendicò per i tedeschi. Alla domanda, posta in inglese dal giornalista olandese, Joachim Löw rispose in maniera piccata “No, not for a minute!” (No, neanche per un minuto!).

[3] Interessante a tal proposito è, ad esempio, il poderoso lavoro di Christoph Dieckmann (Uni. Frankfurt am Main) sulla Lituania durante la Seconda Guerra Mondiale. Dieckmann evidenzia come la compartecipazione della popolazione locale fosse stata fondamentale per la concreta realizzazione della “soluzione finale”. Dieckmann, intervenuto il 12 aprile 2012 durante il Colloquium di Michael Wildt, professore di storia contemporanea e specialista di nazionalsocialismo, all’Università Humboldt di Berlino, ha concluso il suo intervento sottolineando che Auschwitz è “solo” uno dei luoghi dove si realizzò lo sterminio degli ebrei. A significare che la Shoah si realizzò in molti territori dell’Est Europa, dove spesso la maggioranza non era tedesca , e che dunque i carnefici, all’interno del dualismo Opfer-Täter (vittime-carnefici), non furono solo tedeschi

[4] L’articolo fa particolare riferimento alla visita del neopresidente Gauck, originario della Germania orientale. A differenza degli altri presidenti e politici tedeschi, Gauck è stato l’unico che ha “rotto” il silenzio durante la visita al museo, chiedendo “C’è qui anche qualcosa su Auschwitz?”.

[5] Schüttel deinen Speck è il titolo di una canzone di Peter Fox, cantante della scena rap berlinese, che il giornalista scrive di aver ascoltato in un concerto all’aperto nel porto di Elat, come canzone fatta suonare dal DJ prima del concerto per scaldare il pubblico.

[6] L’autore qui fa riferimento alla Germania ed al suo “destino”: da Sonderweg a Sondermodell.

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