Oltre il Moderno? Italia e Repubblica Federale di Germania nella seconda metà del XX secolo
Oltre il Moderno? Italia e Repubblica Federale di Germania nella seconda metà del XX secolo – un colloquio interdisciplinare
Coordinamento: Prof. Dr. Thomas Großbölting, Münster; Dr. Daniel Schmidt, Münster; Prof. Carlo Spagnolo, Bari; Dr. Massimiliano Livi, Münster 06.11.2011-09.11.2011, Villa Vigoni, Loveno di Menaggio (CO)
Traduzione e rielaborazione di Fiammetta Balestracci e Andrea D’Onofrio della nota informativa di Nicolai Hannig (Historisches Seminar, Ludwig-Maximilians-Universität München) in H-Soz-u-Kult, Tagungsberichte, 28.04.2012 [<http://hsozkult.geschichte.hu-berlin.de/tagungsberichte/id=4209>]
Gli anni Settanta sono ormai entrati indiscutibilmente nell’analisi della storiografia tedesca. Lo dimostra la pubblicazione di alcuni significativi volumi collettanei e dei primi studi a carattere accademico, come tesi dottorali e di abilitazione. Il dibattito storiografico tedesco degli ultimi anni in generale ha riservato una particolare attenzione alla storia dei singoli decenni, prima agli anni Cinquanta, poi agli anni Sessanta e infine ai Settanta. Ma necessariamente le categorie analitiche per lo studio di questi decenni devono essere diversificate, quelle utilizzate per gli anni Cinquanta non possono essere valide anche per gli altri due decenni.
«Crisi» e «rotture strutturali» sono per la storia di questo decennio la chiave di lettura prevalente che domina la narrazione, così come molto forte è la percezione che proprio negli anni Settanta affondino le radici dei problemi della società attuale: tra queste il diverso peso esercitato dallo Stato sociale; la crisi della produzione fordista, il crescente indebitamento dello Stato, la transizione demografica e non ultimo l’avanzante secolarizzazione.
In che misura i motivi di questa crisi e di queste rotture strutturali risalgono agli anni Settanta è stato il tema del convegno organizzato presso il Centro italo-tedesco di Villa Vigoni sotto la direzione scientifica di Thomas Großbölting, Massimiliano Livi, Daniel Schmidt e Carlo Spagnolo. Data l’ampiezza del tema, hanno potuto essere analizzati solo alcuni ambiti del processo di trasformazione sociale in esame. La combinazione di keynotes di ampia trattazione, valutati poi alla luce dei risultati di ricerche specialistiche e fondate empiricamente, ha permesso di sviluppare una discussione articolata sul significato di cesura del periodo in oggetto.
Nelle loro introduzioni Thomas Großbölting (Münster) e Carlo Spagnolo (Bari) hanno sottolineato come il riferimento agli anni Settanta nel dibattito storiografico sia attualmente dominato da strettoie interpretative sul piano socio-economico. È loro opinione che nell’analisi della industrializzazione, dei rapporti di produzione e della politica economica l’individuo, nelle sue esperienze, nei suoi progetti e nelle sue pratiche di vita, venga trascurato. Questo sebbene proprio la tanto citata trasformazione da classe in ceto sembrerebbe dovuta più alle modificate percezioni di gerarchie sociali che ad un cambiamento di fondamentali elementi storico-sociali. Si tratta di una riflessione che, come poi anche il successivo dibattito interdisciplinare tra storici e sociologi italiani e tedeschi, si è mossa lunga la linea tracciata su questi temi da Lutz Raphael e Anselm Doering-Manteuffel nel loro saggio Nach dem Boom. Perspektiven auf die Zeitgeschichte nach 1970 (Göttingen 2008).
In generale sono stati individuati quattro ambiti di discussione, subordinati alla domanda se i mutamenti nella modernità siano stati così incisivi da far parlare per l’ultima fase del XX secolo di una seguente fase di «postmodernità». Per delimitare tale questione sono state individuate quattro categorie procedurali (Prozesskategorien), quali l’individualizzazione, la pluralizzazione e la denormativizzazione, rispetto alle quali ci si è interrogati circa il loro potenziale ermeneutico nel sostituire determinate rappresentazioni della modernità. È, tuttavia, ben presto emerso che non si può discutere di questi tre concetti in modo separato. Al tempo stesso è apparso chiaro che il potenziale del concetto di «denormativizzazione» sia piuttosto da restringere al suo carattere di concetto-fonte (Quellenbegriff), poiché il concetto non sarebbe in grado di dare conto di mutamenti tipici degli anni Settanta.
Già nel corso della prima sezione si è creato del consenso tra gli studiosi italiani e tedeschi sul rifiuto di concetti come «postmoderno» o «oltremoderno». Paolo Pombeni (Trento) ha visto una «scarsa rilevanza per la storiografia» del concetto di «postmoderno», perché molti mutamenti di paradigma avvenuti nella seconda metà del XX secolo non avrebbero concluso, ma semmai solo modificato il «moderno». Lutz Raphael (Trier) nel suo testo ha fatto notare che in una prospettiva storico-culturale «i fondamentali cambi di prospettiva nelle autodescrizioni delle società, osservabili al più tardi a partire dal 1800, (…) hanno causato una tale molteplicità di modelli ordinativi (forme di definizione, istituzioni), che appaiono miopi e avventati tutti i tentativi di considerare come conclusa l’epoca della storia apertasi con essi». Nei loro commenti alla sezione Giovanni Bernardini (Trento) e Nicole Kramer (Potsdam) hanno discusso proprio le incertezze contenute in questi concetti. In particolare in ambito italiano i «post-concetti» si sarebbero gradualmente trasformati da categorie descrittive a categorie prescrittive, e, utilizzati con una valenza eccessivamente teleologica, sarebbero stati resi inutilizzabili sul piano analitico. Kramer in particolare ha sottolineato, con uno sguardo empirico sul costituirsi in Italia e in Germania di una politica di sostegno agli anziani, come il concetto di postmoderno sposti il punto di fuga troppo all’indietro e non come la storia contemporanea verso il presente. Ingiustizie sociali verso gli anziani avrebbero sì subito un tangibile inasprimento negli ultimi trent’anni del XX secolo, tuttavia i processi di mutamento all’interno delle Alterswissenschaften (scienze dell’età) e dei modelli familiari sono già iniziati a partire dal 1945.
Il concetto di individualizzazione si è rivelato invece avere un notevole potenziale analitico, tanto più per la sua comparsa come diagnosi della contemporaneità proprio negli anni Settanta, come ha sottolineato Detlev Siegfried (Kopenhagen) nella sua storicizzazione del paradigma dell’individualizzazione. Nel suo uso ammantato nell’accezione critico-culturale è apparso già molto prima come discorso della «fine dell’individuo», nel suo uso diagnostico ha tuttavia conservato un’accezione neutrale fino alla fine del XX secolo. Nell’individuare il punto di partenza di una ricerca storica dell’età contemporanea che per prima abbia cercato di osservare processi di individualizzazione alla stregua di svolgimenti sociali, Siegfried ha fatto notare l’importanza del cambio generazionale come fattore decisivo per la differenziazione di determinati stili di vita. Particolare importanza si deve riconoscere – come suggerito dal politologo Michael Vester – alla «modernizzazione dell’habitus all’interno di uno stesso milieu da un modello di comportamento autoritario a uno di autoresponsabilizzazione. La generazione più giovane «sulla strada della mobilità, offerta dall’apertura sociale, ha portato con sé il suo habitus d’origine, anche se in modo più aperto e modernizzato». Anche Olga Sparschuh (Berlin) e Barbara Grüninig (Bologna) hanno indicato nei processi di individualizzazione caratteri del moderno. Ciò sarebbe visibile nell’uso di stili di vita meno ascetici e sempre più edonistici tra gli emigranti italiani sulla scia della integrazione europea, così come nel palesarsi del soggetto come ben definita categoria culturale. Roberta Sassatelli (Milano) ha quindi posto l’attenzione sul ruolo della cultura del consumo come forma di mediazione di nuove strutture dell’individualizzazione e dunque come genuina invenzione del moderno. «As a normative cultural identity, the `consumer´ appears in striking continuity with hegemonic modern views of subjectivity. The development of capitalist society has consolidated and popularized a particular notion of the subject: the autonomous actor in a growing distance from things».
La sezione sulla pluralizzazione si è collegata nelle sue discussioni sotto molti aspetti al precedente confronto sui processi di individualizzazione. Il dibattito è qui tuttavia partito da presunte supposizioni affrettate di un mutamento dei valori (Wertewandel), manifestatosi nel modificarsi di modelli borghesi di famiglia, nella perdita di considerazione di norme vincolanti, nella pluralizzazione degli stili di vita sino alla progressiva secolarizzazione a partire dagli anni Settanta. Frank Bösch (Postdam) ha conseguentemente cercato di mostrare piuttosto i limiti delle tesi della individualizzazione e della pluralizzazione, collocando i processi di trasformazione imputati agli anni Settanta e Ottanta in una trasformazione storica di più lungo periodo. In riferimento a ciò in primo piano è stata messa la questione dell’effettiva radicalità della pluralizzazione di forme familiari, la dissoluzione di legami sociali, così come l’arbitrarietà culturale postmoderna, da intendersi come la fine di grandi narrazioni. Nella storia della famiglia, infatti, sarebbero stati piuttosto gli anni Cinquanta e Sessanta un periodo di eccezione, non tanto gli anni Settanta. Tanto è vero che già all’inizio del XX secolo era diminuito in maniera significativa il numero delle nascite per donna. Gli anni Settanta, quindi, si inserirebbero piuttosto in questo lungo trend, rispetto al quale il boom delle nascite del secondo dopoguerra costituirebbe soltanto una breve interruzione. Lo stesso potrebbe dirsi per il mutamento delle forme di vita familiare. Addirittura negli anni Settanta il numero delle famiglie a genitore unico nella Germania federale diminuì, per poi evidenziare una crescita solo a partire dagli anni Ottanta e Novanta – soprattutto nei nuovi Bundesländer. In Italia, invece, argomenta Marco Maraffi (Milano), non si osserverebbero grandi cambiamenti per tutto il corso del XX secolo sul piano delle strutture familiari, il che contraddirebbe, secondo lui, anche l’individuazione di una cesura a metà degli anni Settanta. È in ambito religioso, ha osservato Bösch, che negli anni Settanta si registrano i segnali di una maggiore pluralizzazione e individualizzazione. Il fenomeno di abbandono delle due principali Chiese cristiane non sarebbe inevitabilmente un segnale di secolarizzazione, avrebbe piuttosto aperto la strada ad una fede maggiormente legata all’intimità e all’esperienza. Da una prospettiva storico-religiosa Nicolai Hannig (München) ha fatto tuttavia notare come questa accresciuta attenzione ad uno spettro di religiosità alternativa fosse intimamente legata a problemi della misurazione (scientifica) del mutamento.
Nella quarta sezione sulla denormativizzazione i relatori hanno cercato di completare la prospettiva socio-economica proposta da Lutz Raphael e Anselm Doering-Manteuffel, definendo maggiormente il ruolo dell’individuo in relazione alle sue esperienze, ai suoi progetti e alle sue pratiche di vita. Thomas Großbölting (Münster) ha sottolineato a questo proposito lo sgretolarsi di legittimazioni religiose della forma di vita della famiglia come evidente cesura del tardo XX secolo: «se prima erano la religione, la tradizione e l’appartenenza di status a determinare le forme della vita privata; oggi lo sono le regole e regolamentazioni dello Stato sociale e dei suoi strumenti giuridici, l’istruzione e l’opinione pubblica». Le strutture di valore non scomparirebbero, così hanno argomentato Fiammetta Balestracci (Trento) e Paolo Jedlowski (Cosenza), ma vengono integrate e trasformate dalle «norme costitutive» di una seconda modernità, nella quale le differenze e la pluralità non vengono più discreditate o sanzionate, ma piuttosto vengono accettate e riconosciute come socialmente performanti. Così verrebbe dimostrato, secondo Jedlowski, come la modernità sia un tutto continuamente non concluso, contraddittorio e polivalente da guardare sotto ottiche diverse e in un modo aperto che si avvicina all’idea delle modernità multiple di Eisenstadt. In riferimento a questa dimensione aperta della modernità anche il concetto analitico di denormativizzazione non sarebbe, secondo Jörg Neuheiser (Tübingen), quasi più utilizzabile, in quanto indicherebbe unicamente una pluralizzazione di norme, coincidente con la scomparsa di un canone tradizionale di convinzioni. Di maggiore rilievo sarebbe piuttosto la domanda: quali nuove strutture costrittive e costruttive emergono e come si colloca l’individuo in queste «disposizioni del sia-sia».
Elementi che vengono attribuiti al postmoderno si scoprono essere sempre più spesso fenomeni del moderno, conclude Massimiliano Livi (Münster). Tanto meno il dilemma categoriale descrittivo si lascerebbe risolvere, se si parlasse ad esempio di una modernità fluida – come è stato proposto in diverse occasioni – in quanto una tale accezione suggerirebbe una modernità precedentemente statica. Anche la definizione di una «seconda modernità» sottolineerebbe una rottura di struttura che sul piano storico-culturale e storico-sociale solo difficilmente sarebbe riscontrabile nei mondi vitali degli uomini dell’epoca, cosa che hanno mostrato in maniera significativa le discussioni e i risultati empirici proposti. Anche se nell’attuale dibattito sulla rottura di struttura non è la prima volta che gli storici tendono a retrodatare l’erosione delle precedenti strutture sociali di circa 40 anni, il dibattito sulla periodizzazione rimane molto fruttuoso. Perché la formazione delle cesure rimane ancora uno dei campi della storiografia più produttivi sul piano della discussione e di accesi confronti.